Intervista a Pupi Avati- ( pubblicata dal settimanale ‘Il Futurista’ sul numero uscito ven.17 dic.2011)


Il Cuore Grande di Pupi Avati
di Mariagloria Fontana

Pupi Avati si concede per un’ora e mezza al telefono parlando con una giornalista sconosciuta alla quale racconta se stesso. Si dà tutto, senza remore, né filtri, è generoso. Ha un animo profondo, che ti emoziona e ti pare quasi di scorgere nonostante lui sia di là dall’altra parte della cornetta. Il regista è più intenso di un qualunque suo film e so già che non sarà felice di questa affermazione, ma tant’è. “Oggi, ci siamo un po’ conosciuti io e lei, vero?”. Vero, perché si è messo a nudo sulla famiglia, sui valori e la tradizione, sul cinema e sugli affetti, sulle debolezze umane e sulla morte.

Nel suo ultimo film ‘Il Cuore grande delle Ragazze’, racconta la storia d’amore dei suoi nonni. Come vede il matrimonio Pupi Avati?
Io sono sposato da ben 47 anni, ma non è che sia sempre stato un idillio. Il concetto di fedeltà è alla base del rapporto e non è un luogo comune. Nel tempo il matrimonio cambia, si configura e si rafforza. La fedeltà non è un elemento trascurabile. Può parlare di matrimonio solo chi ne conosce davvero il significato, perché lo vive ogni giorno, nel corso degli anni e nella qualità del rapporto. Io mi sento legittimato a parlarne. Molti ne parlano senza averne alcuna cognizione, senza avere presente le promesse matrimoniali, né rispettando quelle stesse.

Lei non concede nulla alle debolezze?
Certo, la debolezza è umana, ma agli ipocriti non concedo niente.

Il suo matrimonio com’è?
È un rapporto solido, ma abbiamo vissuto momenti bui, perché è transitato nella difficoltà. È stato segnato dal tradimento, dall’adulterio, e mi sono separato per un periodo. Per alcuni mesi sono stato anche allontanato da casa. Poi fortunatamente sono stato riaccolto, ma è stata dura per entrambi.

E com’è tornato a casa’?
Sentendo la voglia di tornare dalla mia famiglia, da mia moglie e dai miei figli, ne ho tre. Io e mia moglie abbiamo avvertito il peso, la responsabilità di questi tre bambini. Credo che se non insorgono elementi estranei, se è possibile per i due coniugi decidere come è accaduto a me e a mia moglie, è giusto riconsiderare sempre la possibilità di tornare assieme. Abbiamo capito che per nostra sola volontà, i figli non dovevano essere privati della madre e del padre. Figure diversissime e insostituibili per questo necessarie entrambe alla loro crescita.

Vuol dire che è tornato per fare il padre?
No, non solo, ho fatto il padre e anche il marito. Dico soltanto che nessun genitore ha il diritto per egoismo di privare i propri figli di una delle due figure genitoriali.

Come avete ritrovato l’equilibrio?
Nel tempo, il matrimonio si è ricomposto nell’amore, nella condivisione anche delle responsabilità genitoriali e del dovere di coniuge. L’amore si è riversato nell’affetto tra noi due.

Come sono i matrimoni di oggi?
Alla prima difficoltà, alla prima burrasca, ci si arrende, si scappa. Questo atteggiamento è deprecabile in generale, ma se non ci sono di mezzo i figli, ognuno si assume solo la propria responsabilità di coniuge e decide per sé, però se ci sono dei figli non è accettabile, a meno che non sussistano dei motivi gravi. Non si deve privare il figlio del nucleo familiare.

Cosa significa essere sposato?
È un dei mestieri più difficili. C’è la responsabilità da assumersi, la stabilità, l’equilibrio e la serenità che devi infondere. Inoltre, si deve entrare nell’ottica di rinunciare alle tentazioni che, lo sappiamo, sono molte.

Crede che i nostri leader politici debbano dare un esempio in tal senso?
Sì, ma purtroppo coloro che parlano di famiglia sono sempre persone che hanno distrutto le proprie. Sovente, i responsabili dei settori strategici legati alla famiglia sono individui che nel loro privato non hanno costruito nulla di buono e non sono stati in grado di portare avanti situazioni affettive personali, come possono pretendere di parlare a noi di famiglia? sono degli ipocriti, dei demagoghi. Non sopporto questa ipocrisia, questo perbenismo.

Qual è il ruolo del padre?
Il padre deve essere un modello, deve esserci anche una dialettica molto forte. Si devono compiere azioni replicabili , eventualmente, poi sarà il figlio a contestarle. Il padre è la figura ‘tutelare’ del nucleo familiare. Tuttavia oggi i ruoli non sono più così limpidi come quelli della mia infanzia. Oggi ci sono due padri, due madri e non mi riferisco alle coppie omosessuali, parlo sempre di eterosessuali, i ruoli si mescolano. Mancano i caratteri distintivi che sono quelli che formano il carattere del figlio.

Che importanza ha la tradizione?
Ritengo che si debba tornare alla tradizione di ciò che ha funzionato. Per esempio, io sono molto riconoscente al mondo rurale in cui ho vissuto da bambino in emilai romagna, il mondo contadino. Sono nato e cresciuto in campagna e mi è rimasta dentro, la porto sempre con me, nei miei film.

La sua era una famiglia patriarcale?
Sì, certo, con i limiti che essa può avere. Tuttavia, in quel tipo di famiglia il bambino aveva un punto di riferimento, anzi più di uno, c’erano nonni, zii, sorelle, fratelli, cugini, anche perché parliamo di famiglie numerose. Oggi nelle famiglie mancano addirittura le parentele orizzontali, perché si fa un figlio unico e il bambino, infatti, è molto solo.

È un problema di ‘responsabilità’?
Sì. Quando mi presentano il proprio ‘compagno-a’, penso che una volta o si era sposati o, al massimo prima del matrimonio, si era fidanzati. Ci si deresponsabilizza continuamente nei rapporti, non si concepisce più il concetto di ‘per sempre’ anche nella promessa matrimoniale si dice ‘per sempre’, ‘finché morte non vi separi’ e invece oggi l’unico ‘per sempre’ è quello della morte.

Sta dicendo che la nostra società è intrisa di nichilismo?
Esattamente. Io vengo da un mondo antico in cui ci si credeva al ‘per sempre’, magari poi non era vero, non accadeva, ma noi ci credevamo. Questa, invece, è una società che vive in un perenne presente, ecco perché penso che i miei film siano inutili.

Perché?
Perché credo che riflettere sul chi siamo, come siamo, non serva più in questa società in cui impera il relativismo etico. L’individuo assolve ogni giorno se stesso.

Il suo cinema però è amato?
Non lo so. Il mio mondo rifiuta il mondo odierno. Anche la politica rifiuta il mio cinema, perché è impopolare, è un continuo richiamo ai sacrifici, alle responsabilità, tutte cose che la politica ha dimenticato. Come pure ha dimenticato l’essere cristiani, è troppo facile dire di esserlo se poi ci si lega quotidianamente per opportunismo. La gente vive parassitariamente e non si produce più. Ormai, ci sono solo ‘professioni’ in cui si crea, ma che cosa si crea? Tutti vogliono creare e non fare. Quando ho iniziato a fare film , se ne producevano 350 all’anno. Oggi all’anno sono di media 70-80, perché non ci sono più le persone che fanno il cinema. Al contrario, tutti si occupano di cinema, scrivono sul cinema, fanno i critici, sono migliaia e migliaia. Parassiti.

Che film guarda Pupi Avati?
Non vado al cinema da decenni, detesto il cinema e non amo guardare i film. Faccio cinema e sono appagato da questo. Io devo farlo, non guardarlo. Al massimo posso alimentare le mie fantasie con adulteri come la musica e la lettura. Poi forse i film che mi seducono un po’ mi scoraggiano e mi inibiscono, perché penso: “perché non l’ho fatto io!” Inoltre, non ho più il candore dello spettatore, quel candore necessario che ti fa vedere i film come una magia. Ormai ho uno sguardo viziato e scorretto. Mi soffermerei troppo sugli aspetti formali, tecnici, il mio è uno sguardo contaminato. Invece, lo spettatore ideale è quello che non sa come si fa un film, che vede ancora un gioco di luci e di ombre proiettate sullo schermo.

Prima di fare il regista, voleva essere un grande musicista. Come ha capito che la strada che stava percorrendo era quella sbagliata?
Confrontandomi con la realtà e scoprendo, conseguentemente, chi fossi. Il tema dell’identità e della ricerca di se stessi mi è molto caro. L’identità è una continua ricerca e poi comporta obblighi, devi comunicare chi sei a tutti. Ognuno ha un suo talento, ma lo devi prima scoprire. Spesso si confonde la passione con il talento, come successe a me con la musica. Non basta la determinazione e la passione senza il vero talento. Quando ho scoperto che non potevo diventare un musicista, ascoltando suonare lucio dalla, è stato dolorosissimo, ma sono andato a cercare quale fosse il mio ‘strumento’, il mio autentico talento. La gente non si pone il problema e sbaglia credendo di trovare il talento in cose che non sa fare oppure si chiede: ‘perché a lui sì e a me non viene riconosciuto’?’

Per quattro anni ha fatto anche il rappresentate di surgelati?
Sì, sono stati anni difficili ma anche formativi. È un modo di vivere la vita solo aspettando lo stipendio, è arido, riduttivo è da ‘impiegati’ della vita. Molti vivono così.

C’è del realismo nei suoi film?
Nella misura in cui faccio coincidere quel film con quello che sto vivendo. Guardo il film e mi somiglia moltissimo, sempre. Credo di essere molto coerente nel far somigliare il mio cinema alla mia visione del mondo. Ecco perché questo ultimo, Il cuore grande delle ragazze, mi riflette immensamente. Dopo ‘Una sconfinata giovinezza’ in cui parlavo dell’alzaimher, una storia dolorosa, plumbea, avevo voglia di sorridere con una commedia, non inutile, ma rassicurante.

Il suo cinema quindi è autoreferenziale?
Lo è sempre e credo sia così per tutti i registi. Più si è autoreferenziali, più si è onesti e quindi universali. Nel profondo, l’uomo è uguale agli altri. Le ragioni per cui si è felici o disperati sono le stesse. Se pensiamo al poeta Archiloco, è più che mai attuale, i greci classici sono contemporanei per come descrivono i sentimenti, le emozioni. Ecco perché il film a cui sono più legato è sempre quello che sto facendo. Quello del passato non sei più tu, non ti assomiglia più.

Il cinema come terapia?
Sì, il cinema si confonde con la mia vita. Quando conosco un artista o un politico e vedo che non corrisponde alla sua immagine pubblica, ne resto deluso. Nei comportamenti le persone non corrispondono con la loro immagine pubblica, torniamo sempre lì. Mi è sempre venuta la voglia di scrivere un film basato su un talk show in cui poi tutti gli ospiti tornano a casa propria e ciascuno è il contrario di quello che dichiara durante il talk show. Non sa quanti ne ho conosciuti che predicavano bene e razzolavano malissimo. Spesso sono persone che nel privato non hanno nulla da spartire con quanto appaiono pubblicamente.

Non ha compassione?
Della sfrontatezza e della demagogia con le quali si presentano, no. Comprendo i limiti umani, so cosa sia la pietas, ma quando si specula, non so perdonarlo.

Che rapporto ha con la religiosità?
Ho l’atteggiamento di chi vuole credere, ne ho bisogno. Avverto la superiorità di un Ente che vada oltre l’ingiustizia umana, perché l’essere umano non ha il potere di legiferare sulla sofferenza. Io debbo credere che ci sia un riscatto per chi soprattutto nasce e vive nel dolore. Deve esserci qualcosa per quelle persone. Per dirla con Heidegger: ‘ormai solo un dio ci può salvare’. Il proselitismo laico è ingiusto e proviene da persone privilegiate. Il conforto che deriva dall’entrare in una chiesa e pregare è importante per le persone che non hanno altro, perché in cambio cosa abbiamo da offrire? la ragione? Anche se illusorio, deve esserci questo conforto. È come se a un attore che recita male dicessi di smetterla e poi lo mandassi a casa. Tanto che sia vero o meno, che esista o no, il dio che preghiamo, non lo risolveremo certo noi con la ragione. E poi io debbo credere che rivedrò mia madre. So di essere infantile, ma non mi importa.

Mi sta facendo venire in mente alcuni film di Ingmar Bergman.
L’ho amato molto, uno dei miei film preferiti è ‘il posto delle fragole’. Ancora mi commuovo se penso alla scena finale in cui il protagonista fa un sogno e appunto riabbraccia il padre e la madre. Ecco, ogni essere umano dovrebbe nascere e poi morire nel modo in cui si è cominciato. Ognuno di noi dovrebbe avere questa possibilità, questo riscatto. Io prego che la mia vita si chiuda proprio così, come in quel film di Bergman, con il ritorno al posto da dove si è partiti. Mi auguro che finisca così.

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Intervista a Ivano Fossati ( Micromega 13 ottobre 2011)

Colloquio con Ivano Fossati di Mariagloria Fontana

“Decadancing” e l’addio alle scene, Ivano Fossati si racconta
Colloquio con Ivano Fossati di Mariagloria Fontana

“Per niente facile” è stato intervistarlo, per tanti, troppi, motivi, all’indomani del putiferio mediatico suscitato dall’annuncio di Ivano Fossati di abbandonare la scena musicale e dedicarsi alla sua vita, ovunque lo porti, “perché siamo naviganti, senza navigare mai”. Il cantautore genovese appare sereno, osserva i tempi bui che attraversa il nostro Paese e ci parla del suo ultimo lavoro: “Decadancing”. L’artista che ha sempre lavorato con acribia alla musica, risponde con altrettanta cura alle nostre domande, scegliendo le parole giuste e non una di più. Lo sguardo dritto, occhi negli occhi, si ritrae non appena la domanda si sposta un po’ più in là, su quella soglia che divide il pubblico dal privato. Ivano Fossati ha voglia di stabilità, esce di scena, come un nostrano J.D. Salinger. Ci lascia ammirarlo da lontano, sorridente, curioso e, perché no, innamorato.

“Decadancing”, la danza della decadenza, che dà il titolo al suo ultimo album è un modo disincantato per beffarsi dei nostri tempi?

La verità è che ci sbeffeggiamo da soli senza il bisogno delle mie canzoni. Certo, è anche una chiave per parlare di questa decadenza, soprattutto se intendiamo la decadenza morale, quella che vediamo oramai intorno a noi tutti i giorni. A meno che non abbiamo scelto di vivere nel paese di Mary Poppins, credo che abbiamo una realtà precisa davanti agli occhi. Parlare di decadenza è un fatto grave, già la parola stessa è molto pesante e nel singolo, ad esempio, in quattro minuti di canzone, ho deciso di trattarla con ironia, anche perché mi intimoriva un po’ e quindi ho scelto questa chiave di lettura.

Nel suo libro “Tutto questo Futuro” ha rilevato: “la politica ti chiede sempre qualcosa”.

La politica, nel senso degli uomini che la abitano, mi ha sempre chiesto qualcosa. L’ho notato in quel periodo, vale a dire alcuni anni fa, perché poi me ne sono completamente allontanato. C’era sempre qualcuno che chiedeva. Era difficile che i politici venissero in camerino semplicemente per farmi i complimenti per una canzone o per un concerto o a parlarmi disinteressatamente. C’era sempre una richiesta, anche piccola, magari di mettere la mia faccia su qualcosa. Molto spesso, non sapevo nemmeno di che cosa si trattasse e dovevo decidere in pochi attimi. Questa costante di richieste alla lunga mi ha stancato e mi sono totalmente distaccato da quel mondo.

Ritornando alla decadenza, cosa ne pensa di quella odierna relativa ai costumi?

Innanzitutto, credo che viviamo in un’epoca di accelerazione tale da non poterla più sopportare. Se perdiamo la testa, se siamo testimoni di questa decadenza, è perché stiamo andando ad una velocità che la nostra mente e, persino, il nostro fisico non possono più sopportare. Accade di tutto e sembra che sia lecito, ma non è così. La strumentalizzazione del corpo femminile e la sua mercificazione sono dati terribili di questa epoca del nostro paese, ma esiste anche una mercificazione degli uomini, degli individui in generale, che non è più sopportabile. Credo che l’accelerazione dei tempi abbia fatto perdere il segno di che cosa sia buono per gli esseri umani e di che cosa non lo sia più. Mi auguro che si riuscirà di nuovo ad andare ad una velocità più accettabile, umanamente comprensibile, in modo da vedere più nitidamente.

Il giornalista Andrea Scanzi, già autore della sua biografia “Il volatore”, ha scritto che lei ultimamente sorride molto di più rispetto al passato e che questo denota più voglia di vita che di arte. È così?

Io ritengo di aver vissuto molto anche prima. Non lo so se in passato ero così diverso. Tutto sommato, credo di no. Se oggi Andrea Scanzi, che è un ottimo osservatore, dice che sorrido molto, probabilmente sarà vero. Questo sorridere di più avrà una sua origine, una motivazione, verrà da qualche parte. Quindi che si tratti di un sentimento, che sia il mio mestiere, che sia l’amore, io penso che sia tutto un insieme di motivi, di fattori che non si possono separare gli uni dagli altri. C’è qualcosa di buono che accade intorno alla tua vita e che ti fa sentire un po’ più forte di prima. Ma d’altro canto, ho appena compiuto sessant’anni, se questo non fosse successo sarebbe un guaio.

Quindi lei oggi abbandona le scene perché è più saggio non più stanco?

Non abbandono le scene per stanchezza, ma per curiosità, perché credo sia ancora abbastanza presto per poter curiosare in altre direzioni. Lo dico con sincerità e lo credo fermamente. Penso e spero di avere tanto tempo per guardarmi intorno, per occuparmi di cose diverse. Tutto sommato questo lavoro l’ho fatto per quarant’anni e avendo scritto moltissimo. Adesso forse la mia curiosità mi porterà a guardare qualcos’altro.

Dei tanti artisti con cui ha collaborato chi ha lasciato tracce nella sua vita?

Quando si lavora con degli artisti le tracce le lasciano in molti. Però preferisco ricordare le persone normali. Forse le tracce più rilevanti che mi porto dentro le hanno lasciate loro. Mi riferisco a persone che facevano un altro mestiere, che non salivano sul palcoscenico, perché non stavano e non stanno tutt’ora sotto le luci dei riflettori. Ma da loro ho imparato moltissimo. Hanno lasciato le tracce più profonde.

Musicista, compositore, poeta, produttore. In quale veste si sente più a suo agio?

Io sono principalmente un musicista. Naturalmente ho scritto anche delle parole, ma mi hanno sempre chiesto molto più conto delle parole che non della musica. Questo mi ha lasciato spesso un po’ interdetto. Avrei voluto che la gente avesse avuto più attenzione per la musica, non soltanto la mia, anche quella degli altri. Invece, qui in Italia si parla tanto di parole, di concetti, di sottotesti, di che cosa si sia voluto dire. Come se le canzoni fossero sempre teatro o letteratura, invece non è così. La musica, tecnicamente intesa, dice altrettanto delle parole. Quando ascoltiamo la musica classica non ci domandiamo se siano necessarie anche le parole per esplicarla e troviamo comunque il significato di quello che ascoltiamo. Invece per quanto riguarda la musica pop non riusciamo a farlo.

Dalla “Costruzione di un amore” a “Tutto questo futuro”. Da un amore infelice ad un amore felice, compiuto.

C’è un bel salto e non solo temporale. Ma il tempo serve sempre a qualcosa. Quando si cresce e si naviga in mezzo alla vita, molte cose non si capiscono, si urta, si rimbalza. È anche naturale che ciò avvenga. Per fortuna, arriva un lungo momento in cui si comincia ad orientarsi meglio. I sentimenti sono una carta geografica complicatissima, lo sappiamo tutti, e sapercisi orientare bene è veramente un’impresa per pochi. Però è una materia che si impara.

C’è una canzone che avrebbe voluto scrivere?

È una domanda difficile da fare a uno che ne ha scritte 460. Probabilmente sì. È possibile che domani o la settimana prossima magari mi venga l’idea di una canzone che non ho mai scritto e che mi trovi fuori tempo massimo per farlo. Mi auguro che questo non succeda, spero di aver scritto tutto, ma se dovesse accadere, la scriverò.

Il suo libro “Tutto questo Futuro” si conclude con il contributo della sua compagna che descrive di come lei sia cambiato e non abbia più voglia di scappare. Ha desiderio di mettere radici?

Lo scritto di Mercedes rappresenta uno sguardo esterno e in quanto sguardo dell’altro è compiuto nel descrivermi. Un conto è quello che io posso raccontare e posso credere di me, di come io sia, anche in buona fede, un altro conto è ciò che l’altro vede di me. Molto di più vale l’occhio degli altri, di chi mi osserva. Allora, se la conclusione di chi mi osserva è quella che ha tratto Mercedes, non posso che esserne felice e spero di somigliare a quello che ha scritto.

Come si vede da qui a un anno?

Mi vedo in una fase di riposo e di vacanza. Tuttavia, se ho impiegato gli ultimi tre o quattro anni della mia vita a maturare questa idea di lasciare la mia professione, inizierò anche a pensare seriamente a che cosa dedicarmi, a che cosa rivolgere il mio sguardo. Ma voglio farlo solo dopo essermi fermato e dopo aver lasciato trascorrere del tempo.

(13 ottobre 2011)

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Intervista ad Andrea Scanzi (pubblicata su’Il Futurista’ del 28 ottobre 2011)



L’antiberlusconismo fa il gioco di B? Una favoletta per “dalemiani”…
Andrea Scanzi: ‘boy di Arezzo’ tra cani e politica.

di Mariagloria Fontana
(pubblicata su ‘il Futurista’ del 28 ottobre 2011)

“Il boy di Arezzo”, come amava chiamarlo Edmondo Berselli quando ancora scriveva sulle pagine del Mucchio Selvaggio, è oramai un affermato giornalista. Classe 1974, firma di punta del ‘il Fatto quotidiano’, Scanzi è eclettico, scrive di vino, calcio, tennis, musica, satira politica, televisione. Le sue analisi sempre caustiche ne fanno un critico temibile, perché dotato di competenza e acume. Occhi azzurri, mani affusolate, un metro e ottantacinque cm di altezza, sulla sua affollatissima pagina facebook i suoi estimatori oltre che citarne i pezzi a memoria, lo definiscono: “indiscutibilmente bello”. Come se non bastasse possedere un talento così sfacciato e abbacinante. Se non fosse anche gentile e affabile, sarebbe detestabile. La sua penna è più tagliente di una scimitarra e ha colpito Fabio Fazio, ferito Checco Zalone e, in ordine di apparizione, Jovanotti. Lo abbiamo incontrato in occasione della presentazione romana del suo ultimo brillante esercizio di stile: “I cani lo sanno” edito da Feltrinelli. Curiosamente abbiamo scoperto che parlando di se stesso arrossisce, tradendo un po’ di timidezza. Ci torna alla mente il brano: ‘Non Arrossire’ di Giorgio Gaber, l’autore che omaggia portando in scena lo spettacolo ‘Gaber se fosse Gaber’. Odiato o amato, lo abbiamo pungolato su cani, politica e vita privata.

Com’è nata l’idea del libro?
Dal grande desiderio di scrivere qualcosa che fosse molto vicino al romanzo e questo è sicuramente quello, fra i libri che ho scritto, che ci si avvicina di più. Volevo pubblicarlo con la Feltrinelli e parlando con la casa editrice ci fu interesse reciproco. Dialogando con Alberto Rollo venne fuori che lui aveva un cane che è finito nel libro di Stefano Benni e io ne avevo due. Mi disse se volevo provare a scrivere un libro dal punto di vista di un cane, come se mettessi la macchina da presa rasoterra. Dopo tre mesi, ho scritto la prima stesura in dieci giorni.

Il titolo: ‘i cani lo sanno’. Cosa sanno più degli uomini?
Il libro avrebbe dovuto intitolarsi ‘i cani ci guardano’ però prima di noi è uscito il libro di Franco Marcoaldi e quindi abbiamo optato per ‘i cani lo sanno’ , che ha un qualcosa di ‘ligabuista’ e non è esattamente il mio musicista preferito, però quel titolo suonava bene. I cani sanno tutto di te, sono la tua ‘scatola nera’, nel momento in cui si potessero smontare scopriremmo delle cose veramente inquietanti. Sanno essere fedeli come noi non sappiamo essere, sanno osservarti con una discrezione assoluta, sanno accudirti e mantenere segreti. E, soprattutto, sanno paradossalmente insegnarti ad essere uomo. Pur appartenendo a un’altra razza, che non è umana, ci insegnano a essere umani.Forse perché sono così dolci, così puri anche nei loro difetti. Sono spietati nel loro voler bene, non hanno alcun tipo di barriera, sono se stessi. In questo 2010 del mio scontento, come lo chiamo nel libro, mi hanno insegnato a essere più uomo, mi hanno permesso di trovare la mia strada e che trovassi me stesso.

Addirittura?
Loro sono stati gli unici esseri viventi che sono rimasti con me dall’inizio alla fine. Quindi qualche merito glielo devo pur dare.

Scrivi anche della tua fedeltà nei confronti dei tuoi cani. Cosa significa?
Amore continuativo, affetto, è il pensare sempre a loro non come a una cosa di tuo possesso ma come qualcosa che fa parte sistematicamente della tua vita. Rimangono cani, non sono figli, però mi sono reso conto di avere un attaccamento totale a loro. Un atteggiamento che ho nei confronti degli amici, della famiglia, delle persone a cui voglio bene. Nel libro ironizzo dicendo che lo stesso concetto di fedeltà non riesco ad averlo in un rapporto di coppia e paradossalmente la mia battuta è : “sono le uniche femmine alle quali sono rimasto fedele”. È una battuta, ma è molto vicina alla realtà.

Max Stèfani, allora direttore del Mucchio Selvaggio per il quale scrivevi, e proprietario di un labrador, Seppia, del quale parli anche nel libro, che ruolo ha avuto nella tua vita?
All’inizio della mia carriera, Max è stato una delle persone più importanti, perché è stato il primo che ha creduto in me. Gli ho voluto così bene da decidere che fosse lui il mio testimone di nozze quando mi sono sposato otto anni fa. Poi nella vita le cose cambiano. Lui a un certo punto ha deciso di abbracciare un certo tipo di giornalismo volgarotto, qualunquista, con una scrittura brutta, che non mi piaceva. Non mi ci trovavo più e allora nel 2006-2007 ho abbandonato Il Mucchio quando ancora scrivevo per ‘La Stampa’. Non me l’ ha mai perdonato. Con il passare degli anni mi ha dedicato qualche corsivo sostenendo che io facendo carriera avevo tradito me stesso; lui tende a pensarlo di tutti quelli che fanno carriera. Credo che Max debba chiedermi scusa, perché da un punto di vista umano è stato molto scorretto nei miei confronti. Comunque pur avendomi fatto male in passato, gli riconosco tanti meriti e tante cose che mi hanno aiutato. Non ultima, il fatto che mi sia innamorato dei labrador nere femmina proprio per colpa sua. Nel 2000 lui era single e aveva questo rapporto empatico con il cane, Seppia, erano veramente un’unica persona. Mi piaceva questa cosa.

Sei molto caustico, specialmente nel tuo blog ‘il criminoso’. Credi che il giornalismo e la satira politica possano incidere sul dibattito politico?
Sul dibattito sì, sulla realtà concreta molto meno. In linea di massima io detesto le penne, o le voci, che non hanno il coraggio di esporsi. Quindi dico e scrivo ciò che penso. Non è gusto gratuito per la provocazione, ma esigenza di libertà e fastidio feroce per la grande moda degli ultimi anni: il volemosebenismo paraculo.

Due fenomeni legati all’informazione. Secondo Arianna Huffington le notizie stanno diventando ‘sociali’, nel senso che i giovani si informano più sui social network che attraverso altri mezzi di comunicazione. Anni fa, Tina Brown (attuale direttrice del Daily Beast ed ex direttrice del New Yorker) è stata l’antesignana di quel giornalismo che è una commistione di notizie e gossip. Dove vanno informazione e giornalismo in Italia?
Vanno verso la morte, perché l’informazione canonica è quasi sempre asservita o pallosa (o entrambe le cose). Il web non è la salvezza, ma ha potenzialità immense. E arriva sempre prima. Condivido la Huffington, ormai i social network incidono anche sulle elezioni, mentre del gossip non so che farmene. Non mi interessa il pettegolezzo, il privato, non mi interessa la cronaca nera. Mi interessa dare e cercare notizie e opinioni.

Nel tuo seguitissimo blog tiri fendenti fatti di parole nei confronti dei rappresentanti politici e non solo. A tuo avviso c’è un’alternativa a Berlusconi e ha ancora senso parlare di ‘antiberlusconismo’?
Più che altro ha senso parlare di indignazione, decenza e sano desiderio di opporsi. La storia dell’antiberlusconismo che fa il gioco di Berlusconi è una favoletta a uso e consumo di dalemiani e polli di allevamento derivati. L’opposizione politica italiana è debole, pietosa e correa. Per questo, Berlusconi è ancora lì. Fa comodo anche alla presunta opposizione. Il Pd ha colpe terrificanti e non lo voterei neanche sotto tortura. Nei miei articoli, nel mio blog e nella mia pagina Facebook sono seguito perché do un punto di vista diverso, inedito, libero e forse coraggioso. A volte sono condivisibile e a volte no, ma l’effetto che si ha leggendomi è quello del “finalmente qualcuno dice che il Re è nudo” e nel caso di Berlusconi è quasi sempre nudo, peraltro. Nell’era del situazionismo, del tengofamiglia e dell’equilibrismo, è quasi un’eresia.

Del periodo in cui hai scritto la biografia di Ivano fossati che ricordi hai?
Per la stesura de“Il volatore” ho impiegato due anni. È il libro più faticoso che ho scritto, la parola ‘faticoso’ non ha necessariamente un’accezione negativa, anzi. Ogni volta con Ivano dovevamo trovare l’incastro giusto. A lui non piaceva una pagina, a me non ne piaceva un’altra. Ho vissuto in piccolo quello che ha vissuto Fossati con De André quando scrissero Anime Salve. Mi sono reso conto che per loro, poiché erano due caratteri molto scorbutici, scontrosi, esigenti, benché geni assoluti, era inevitabile lo scontro. Non sono paragonabile a loro due, però nel piccolo i nostri due caratteri forti, introversi, spigolosi, si sono scontrati. Finché si è trattato di un rapporto di amicizia, è andato tutto bene, quando si è trattato di scrivere, per quanto riguarda lui qualche screzio c’è stato. Però alla fine il libro è piaciuto a entrambi, l’amicizia si è cementata e sono molto contento che negli anni successivi, anche quando è capitato che io non scrivessi delle cose enormemente positive nei confronti dei suoi dischi, lui mi abbia telefonato e mi abbia preso in giro dicendomi: ‘riesci ad essere cattivo anche con me’ però dicendolo con stima. È un amico e sono felice che sia rimasto questo rapporto con lui.

Si dice che per fare i giornalisti si debba ‘stare sulla notizia’. Come puoi permetterti di vivere in campagna ai piedi di Cortona, semi isolato,come se fossi il protagonista di un romanzo, lontano da tutto e tutti?
Me lo posso permettere sempre di meno. Quando nel 2010 si è trattato di decidere se trasferirsi a Roma o a Milano, ho scelto di restare a Cortona. Durate la settimana sto spesso fuori casa, viaggio molto e a Cortona ci passo soltanto tre giorni a settimana. La mia casa di campagna è un po’ la mia camera di compensazione. Non so fino a quando potrò permettermi di vivere così lontano dalla metropoli, ma mi auguro che sia ancora così per un po’.

Molti sostengono che tu sia l’erede di Edmondo Berselli.
Per me lui è stato un maestro. Ogni volta che me lo citano e fanno un parallelismo tra me e lui ne sono orgoglioso, però non credo di meritarmelo. Sono sempre felice di ricordalo, di poter raccontare quanto era bravo e quanto era bello umanamente, quanto mi ha insegnato e quanto mi aiutato anche concretamente. Ci sono dei punti di contatto inevitabili, lui era un eclettico, era uno che scriveva di tanti argomenti, aveva una labrador femmina a cui ha dedicato il suo ultimo libro . Ci sono tante cose che incrociano il suo cammino con il mio. Sono sicuramente il suo allievo, ma da qui a dire che sono il suo erede ne parliamo tra vent’anni.

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Intervista a Milo Manara (pubblicata su “Il Fatto Quotidiano” del 2 ottobre 2011)


Milo Manara:
“Nelle storie di B. non c’è erotismo, ma solo miseria”

Si è aperta ieri a Siena la mostra antologica “Le Stanze del desiderio”. L’uomo che ama le donne si racconta, parlando di politica e sessualità.

Di Mariagloria Fontana

(pubblicata su ‘Il Fatto Quotidiano’ del 2 ottobre 2011)
‘Le Stanze del Desiderio’ è il titolo della mostra antologica che Siena dedica al maestro dell’eros a fumetti Milo Manara. Quarant’anni di attività esposti in circa trecento tavole in bianco e nero e a colori, creazioni inedite e filmati che ne ripercorrono la carriera. Genio di sensualità, Manara ci racconta il suo universo femminile e la sua idea di bellezza, donne e politica.

Secondo il mito platonico l’eros è desiderio e‘mancanza’. Per lei cos’è?
Più che da Platone, partirei con lo scomodare Budda e la pace dei sensi, la mancanza del desiderio. Sono convinto che non mi piacerebbe vivere in un mondo di ‘beati’, cioè di individui privi di pulsioni. Il desiderio è un’energia vitale, un motore, la molla principale per l’evoluzione. Ciò che reputo negativo per l’essere umano è la soddisfazione, già Oscar Wilde sosteneva che la cosa peggiore che ci possa capitare non è il desiderio, ma il suo appagamento.

Le protagoniste delle sue storie hanno alimentato l’immaginario erotico maschile e continuano a farlo. Che idea si è fatto delle donne che ruotano intorno alla vita pubblica e privata del nostro Premier?
Sono d’accordo con una frase di Cacciari che considera questo momento politico una catastrofe prima di tutto di tipo estetico e poi anche etico. Per fare un esempio, le famose barzellette di berlusconi non mi infastidiscono perché sono ‘sporche’, ma perché sono stupide, non fanno ridere. Non è la parte diciamo ‘pseudo-erotica’ che mi scandalizza, ma la pochezza del racconto. Così come in tutta questa vicenda delle ragazze, è lo squallore che mi colpisce. Non mi turba che un uomo di settantacinque anni abbia ancora delle pulsioni erotiche, ma è inaccettabile che candidi queste donne in politica. Sono azioni davvero basse. Se c’è un uomo che non può giudicare qualcuno sul piano erotico, quello sono io, ma in queste storie non c’è erotismo, c’è solo miseria.

Si potrebbe definire ‘pornopolitica’?
Si tratta di squallore non di pornografia. La pulsione erotica è la più forte che abbiamo, garantisce la continuazione della specie, è un istinto primario, insindacabile. Tuttavia, se questa fame di immagini, di fantasie viene soddisfatta solo commercialmente come se fosse un prodotto, ne traiamo una delusione profonda. Il fatto poi che Berlusconi abbia retribuito quelle ragazze, esclude qualunque sogno erotico. Lo ripeto: non vedo traccia di erotismo in queste vicende.

Lei ha raccontato vizi e debolezze umane. Ritiene che un uomo pubblico possa appellarsi al diritto alla privacy?
Chiunque si presenti per essere eletto come rappresentante politico ha il dovere di farmi sapere tutto di lui. Come elettore voglio conoscere soprattutto ciò che desidera nascondere. Per un uomo politico, il diritto alla privacy è una cretinata. Io posso perdonarlo se fa degli errori nel corso della sua attività politica, ma pretendo di sapere anche come si comporta in camera da letto, perché questo mi dà un’idea autentica di chi sia.

Qual è l’aspetto più potente dell’erotismo?
Non è facile rispondere a questa domanda. Io sono un ex sessantottino, allora l’erotismo aveva una connotazione liberatoria, eversiva, perché prima la sessualità era vissuta con grandi restrizioni. L’erotismo ha avuto una valenza fortemente politica in quegli anni e le battaglie vinte sul fronte dei diritti civili passano anche attraverso il superamento dei tabù sessuali. Oggi, invece, non so più se l’eros possa avere un ruolo di emancipazione sociale.

Le donne dei suoi disegni sono prese dalla realtà o sono frutto dell’ immaginazione?
Una miscellanea tra l’una e l’altra. Mentalmente faccio un ‘casting’ dei volti e dei corpi di donne che reputo più confacenti alla storia che sto per raccontare. Talvolta mi ispiro a un’attrice, altrimenti a una donna che ho incontrato per caso sull’autobus. Ogni donna è erotica a modo suo e ogni storia ne richiede una diversa.

Che rapporto c’è tra la bellezza e la politica?
Nessuno vuole escludere le belle donne dalla politica, sarebbe stupido. Quello che destabilizza è un ministro che ottiene la propria carica solo in virtù della propria bellezza. È chiaro che quel ruolo richieda capacità, conoscenza, competenza e anche una certa dose di saggezza. C’è un episodio che racconta della modella di Prassitele, Frine, accusata di prostituzione . Quando fu portata in tribunale, il suo avvocato invece di difenderla con un’arringa, la denudò davanti ai giudici. La ragazza fu assolta, perché i giudici stabilirono che la bellezza è una virtù in sé e che se posseduta in maniera assoluta, può garantire la salvezza. Non fu condannata, ma non per questo fu fatta ministro.

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Intervista a Milena Gabanelli ( pubblicata su ‘Il Futurista’ del 2 settembre 2011)

Il giornalismo, quello vero? Niente padroni né ideologie
Report, la buona informazione e il gusto di non essere sudditi.

di Mariagloria Fontana
Ci aveva promesso un’intervista non appena si fosse risolta la questione della copertura legale di ‘Report’, la trasmissione di raitre di cui è autrice e conduttrice, e così è stato. Coerenza ed essenzialità sono due qualità che caratterizzano Milena Gabanelli. Laureata in storia del cinema, ha esordito nel giornalismo televisivo con Giovanni Minoli come inviata di guerra nelle zone calde del mondo e si è subito distinta per coraggio, etica, rigore e serietà professionale, Con ‘Report’ ha varcato il confine del giornalismo d’inchiesta e ha portato nella tv italiana una ventata di novità nel metodo e nel linguaggio. Della sua vita privata si sa pochissimo o nulla. D’altronde, Milena Gabanelli è concisa, schietta così come appare, senza orpelli, senza fronzoli. Non si compiace dei traguardi raggiunti, anzi, non guarda mai indietro. Perennemente impegnata nella battaglia che vede i diritti civili in prima linea, dalle fila del conflitto serbo-croato a ‘Report’, Milena Gabanelli, si racconta.

È soddisfatta di come si è risolta la questione della tutela legale di ‘Report’?
Per quel che riguarda la sottoscritta certamente sì, nel contenuto, ma non nella forma . Avere mezza azienda contro non mi rallegra. Spero che a breve si risolva anche la questione che riguarda i miei collaboratori.
Per quanto concerne la Rai non è, invece, conclusa la faccenda che riguarda il suo contratto?
Non ancora. Stiamo discutendo alcuni aspetti dell’esclusiva.

La puntata di Report su Tremonti, la scorsa stagione, suscitò le critiche del Ministro , azionista di maggioranza della Rai, che si rivolse all’Agcom facendo un esposto e voi foste costretti a mandare in onda una puntata ‘riparatoria’. Dopo la richiesta di arresto per il deputato Marco Milanese per corruzione,associazione per delinquere, rivelazione di segreto d’ufficio e la storia della sua casa romana che lui pagava e che però era abitata dal Ministro, che considerazioni fa a posteriori?
Come tributarista credo sia il migliore su piazza, lo sanno bene tanti illustri professionisti e imprenditori clienti del suo ex-studio. Non ho nessuna stima invece per il Tremonti ministro, politico e intellettuale, e non c’è dubbio che se l’Italia fosse un paese normale avrebbe dovuto dimettersi da tempo.

In passato ha collaborato con Giovanni Minoli per Mixer. Com’è stato lavorare con lui?È stato il mio inizio, quindi a lui va tutta la mia riconoscenza per aver avuto fiducia in me. Quando si comincia c’è sempre molto entusiasmo, magari i risultati però non sono all’altezza; serve tempo per maturare un’esperienza. Minoli mi ha dato la possibilità di individuare la mia strada e il suo contenitore era il luogo più adatto. Era sempre molto produttivo confrontarsi con lui.

Marco Guidi, giornalista e inviato di guerra del Messaggero, nonché suo amico, ha raccontato, nella trasmissione radiofonica ‘Un Giorno Speciale’ con la quale collabora, che durante la guerra dei Balcani lei percorse alcune zone di guerra dentro ad un carro armato, noncurante del pericolo, e che il mezzo sarebbe potuto esplodere improvvisamente. Si ricorda di quell’episodio?
Rammento tutto, perché fu la mia prima esperienza “dentro” ad una guerra, forse la più atroce degli ultimi decenni. Fu uno shock. Accadde durante il conflitto serbo croato. L’episodio al quale Guidi fa riferimento è quello in cui ho fatto un tragitto dentro ad un trasporto-truppe in una zona assediata, insieme a dei prigionieri ,ed ero terrorizzata perché pensavo che quel carro potesse essere colpito in un qualunque momento e finire tutti quanti arrosto, come avevo visto accadere la sera precedente .

Dalla tesi di laurea in storia del cinema ad inviata di guerra impavida sino al giornalismo d’inchiesta. Che cosa hanno in comune queste fasi della sua vita?
Nulla. Una fase si era chiusa e altre si erano aperte…spesso per caso.

Nella sua biografia si legge: ‘introduce il video giornalismo in Italia’. Come capì che il futuro del giornalismo televisivo, anche in Italia, sarebbe stato quello di auto filmare i propri servizi ?
Ho iniziato a realizzare i miei servizi da sola, perché era l’unica possibilità che avevo di lavorare: costava poco e rendeva molto. Siccome all’epoca ero l’unica a lavorare così, ho cominciato a teorizzare il metodo; poi la tecnologia, sempre più piccola e sofisticata ha fatto il resto. Non ho mai inventato nulla, mi sono sempre data da fare con quel che avevo a disposizione, tenendo le antenne dritte. Che è poi quel che bisogna fare quando non rappresenti altro che te stesso e devi ancora dimostrare se vali qualcosa.

Il giornalismo d’inchiesta oramai è sinonimo di Report e Milena Gabanelli ?
Il giornalismo d’inchiesta è nato ben prima di me e di Report. Io e i miei colleghi abbiamo solo cercato di riproporre un genere nel modo più tradizionale e classico, con la novità del metodo di lavoro.

Lei è una giornalista free-lance. È una sua scelta voluta e confermata negli anni?
Io non ho mai scelto di essere free-lance, semplicemente nessuno mi ha mai proposto un’assunzione. Per quel che riguarda la libertà, bhè credo sia uno stato mentale. C’è chi nasce suddito e chi no.

Si è mai sentita vicina a un’ideologia o a un pensiero politico?
Ho degli ideali, legati ad un senso di giustizia, responsabilità, un equilibrato rapporto fra diritti e doveri, ma ideologia no. Credo di non averla mai avuta. Nemmeno a 20 anni…quando erano altri tempi e le ideologie rappresentavano uno schema di identificazione.

Cosa pensa di registi-autori di documentari che fanno anch’essi giornalismo d’inchiesta, mi viene in mente Michael Moore.
Tutto il bene possibile, la cronaca è un’ottima materia narrativa e informativa.

Dopo ‘Report’ è nato un modo nuovo di fare televisione e giornalismo, ma sono cresciuti anche tanti ‘emuli’ .
Se Report è un buon programma e altri lo imitano penso sia un bene. Non sono gelosa di qualcosa di cui peraltro non ho il copyright.

Crede nel futuro del ‘citizen journalism’?
Ritengo che sia un definizione molto mediatica, come dire “paesi emergenti”al posto di “paesi in via di sviluppo”. I mezzi oggi consentono a chiunque di documentare un fatto, e questo dà un contributo importantissimo alla comprensione e alla spiegazione dei fatti, che però hanno bisogno dell’intervento del giornalista, perché il “citizen” da solo non è in grado di farlo.

Una volta in un’intervista Giorgio Fornoni, che lei scoprì durante la sua trasmissione , mi disse che se lei era una giornalista pubblicista, lui di certo non sentiva il bisogno di diventare un ‘giornalista professionista’. Che opinione ha dell’Ordine dei Giornalisti?
Non credo sia fondamentale per esercitare questa professione.

Anni fa, in una lectio magistralis Carl Bernstein disse che quando affronta un’inchiesta parte da un’idea, una piccola ipotesi che nel corso dell’inchiesta stessa può rivelarsi errata, fallace. Le è mai accaduto di partire con un (pre)giudizio e indagando scoprire di essersi sbagliata?
Più che pregiudizio, direi che si parte da un’idea che uno si fa sulla base degli elementi a disposizione, poi strada facendo si scopre che l’idea era inconsistente e allora si molla l’argomento, oppure prende un’altra piega. È successo in diverse occasioni.

Come giudica le nuove generazioni di giornalisti, la ‘mania’ del servizio televisivo un po’ sensazionalistico e trasmissioni ‘alla Iene’?
“Le Iene” è un ottimo programma di denuncia, dissacratorio e a volte comico, è un genere molto seguito dai più giovani, proprio perché più leggero e immediato, quindi svolge benissimo la sua funzione. Il sensazionalismo è tutto quello che si traveste di sicumera e appartiene più al genere talk.

Se le cito i nomi di Maria Grazia Cutuli e Ilaria Alpi, in che modo mi risponde?
Con una lunga lista di nomi, da Giancarlo Siani a Mario Francese. La passione, quella vera, è una vocazione e spesso ti impedisce di valutare la portata di un pericolo o di una minaccia.

Cosa ne pensa della neodirezione di Paolo Ruffini a La7?
Che una storia si conclude e un’altra si apre. Farà sicuramente bene.

C’è qualche politico che stima?
Sicuramente dentro a tutti i partiti ci sono politici per bene, ma credo che pochi li conoscano

“Curiosità, impegno morale altissimo voglia di partecipare al cambiamento” in un’intervista ad alcuni studenti afferma che queste sono le doti principali che dovrebbe avere un giornalista investigativo. In Italia possono bastare?
Da nessuna parte nel mondo le caratteristiche individuali sono sufficienti, ci vuole anche una testata che ospiti il tuo lavoro. La differenza è che in Italia il merito non è un requisito sempre richiesto.

Ha mai avuto il timore di esser stata ‘approssimativa’ in merito ad una questione affrontata nel suo programma?
Quasi su ogni puntata. C’è sempre un aspetto, anche se marginale, sul quale cala il dubbio di non essere stati abbastanza scrupolosi.

Se un giovane giornalista le chiedesse di poter collaborare con lei, quali requisiti dovrebbe avere e cosa gli richiederebbe per ‘Report’?
Esperienza d’inchiesta tv di lungo minutaggio, competenze tecniche che gli permettono di essere autonomo nella realizzazione. Per questo proprio giovane non può essere

Quali sono le priorità nella vita di Milena Gabanelli?
Le stesse che hanno le persone normali: i figli, la famiglia. Con l’aggiunta che, avendo un incarico di responsabilità, devo fare tutto ciò che posso per non disattendere le aspettative e mantenere gli impegni. Questo significa che il lavoro entra, senza sosta, nella quotidianità .

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Intervista al M°Giorgio Albertazzi – Un anarchico e libertario alla corte di Shakespeare

Un anarchico e libertario alla corte di Shakespeare
pubblicata su ‘Il Futurista’ uscito in edicola il 15 luglio 2011

Se si potesse associare Giorgio Albertazzi ad una battuta di un film, si potrebbe dire che: “un essere vivente è una memoria che agisce”. Albertazzi è memoria del Teatro, ne è la testimonianza vivente . Sempre in continua ricerca, proiettato verso quello che Goethe chiamava ‘streben’, il cercare, il superare i propri limiti, con uno slancio che è tensione verso l’infinito con il desiderio di afferrarlo. Durante queste settimane riporta in scena al Silvano Toti Globe Theatre di Roma ‘La Tempesta’ di William Shakespeare. L’ultimo grande maestro del teatro italiano, all’anagrafe quasi ottantotto anni, ci accoglie con urbanità e un grande afflato umano. Sorridente , talvolta, ironico, avvolto da quella singolare malìa che solo chi ha fatto dell’arte la propria vita può emanare.

Che relazione c’è fra lei e Prospero, il protagonista de ‘La Tempesta’ di William Shakespeare ?
Prospero è un mago ed io non lo sono, ahimè. Ho cercato di dargli un po’ della mia umanità, lui che è un incantatore, ma che è teso a svelare gli intrighi del potere. Ho recitato tutti i personaggi shakespeariani, mi diverte. Rispetto ad Amleto e Otello, non c’è fatica, anzi, mi riposo. Il teatro è sempre un gioco, come quello che fanno i bambini, un gioco in cui ti immedesimi ‘seriamente’. Quando mi domandano: a cosa serve? Rispondo: gli uccelli a cosa servono? A essere belli. Pensiamo sempre all’utilità delle cose, delle azioni, dell’arte. Come scriveva Oscar Wilde: ‘tutta l’arte è perfettamente inutile’.

Se le dico: “Siamo fatti della stessa materia di cui sono fatti i sogni”, cosa mi risponde?
Che sono fra i versi più celebri mai stati scritti da Shakespeare, appunto il finale de ‘La Tempesta’. Io lo declamo anche quando faccio i miei recital: “signori il nostro gioco è finito, gli attori, i musici, i personaggi, evocati spiriti si sono dissolti nell’aria figlia della notte”. È bellissimo, suggestivo. Shakespeare rappresenta come nessun altro autore, ed è questa la sua grandezza, la caducità dell’uomo, secondo la quale ogni cosa che comincia è destinata a finire. Per questo siamo uomini e non dei. In tutte le sue opere c’è
la figura costante della fine, della morte e il principio per cui nulla è ripetibile. In fondo, se la vita fosse eterna, sarebbe noioso. Bisogna afferrare l’attimo fuggente come dice Goethe nel suo ‘Faust’: “resta, sei bello! All’attimo fugace. La traccia, qui, dei miei terreni giorni non può svanir negli Eoni infiniti. Nel presagir questa letizia eccelsa io godo, adesso, l’attimo supremo”.

Cos’è il sogno?
L’eternità. Con il sogno si tocca l’eterno. Ci sono pochi modi nella propria esistenza di sfiorare l’eternità, uno è il sogno. L’altro è l’amore, un certo tipo di amore, cioè l’arte, il teatro, oppure l’amore come empatia fra due persone che si incontrano. Questi momenti ti fanno avvertire l’eternità, l’infinito, e per un istante non sei più caduco su questa terra. Anche se poi tutto svanisce e si dissolve.

Che rapporto ha con la memoria e il ricordo?
Da un punto di vista ‘teatrale’, ricordo ogni verso, ogni battuta, ho una memoria di ferro. Invece, per quanto concerne quella che chiamerei memoria ’emotiva’, non rammento mai l’insieme, ma solo dei dettagli. È strano. Un po’ come scriveva Proust in ‘Sulla Strada di Swann’, le famose ‘madelaine’, i luoghi fisici, , gli oggetti, che evocano degli odori, dei ricordi, attraverso di essi percepisco il passato che in questo modo riaffiora nella mia mente, così come i volti e i gesti delle persone che ho amato. Io amo molto la donna, intendo come entità, non sono un donnaiolo, e nel ricordare voi siete bravissime. Le donne hanno una memoria incredibile, prodigiosa. Rammentano ogni attimo, ogni dettaglio d’amore, ad esempio.

Nella sua vita ci sono state molte donne?
Nessun evento importante è accaduto senza una presenza femminile. Se non ci fossero le donne, la vita sarebbe come una stanza chiusa senza finestre. Noi uomini siamo molto più grezzi. Ecco, la donna è una finestra che si apre.

Ha amato molto?
Credo di sì, anche se penso di essere stato molto più amato di quanto io abbia fatto. Forse perché è un mio limite, quando amo mi succede di distrarmi oppure inopinatamente scopro che la storia non mi interessa più, che ha perso la sua curiosità, la sua singolarità. Però tutte le donne che ho amato, in qualche modo, sono rimaste nella mia vita, nessuna è scomparsa del tutto.

Sovente gli artisti soffrono di narcisismo, lei ne è affetto?
Credo di essere più Orfeo, tra i due miti Orfeo e Narciso, sono orfico, nel senso che il canto, la poesia, la voglia di scoprire la divinità e il teatro attengono più ad Orfeo. Non mi pare di amare molto me stesso nel senso visivo, non mi piace contemplarmi.

Nemmeno sul palcoscenico?
La grande performance artistica è anche estetica, ma il momento più alto è quando fai qualcosa che non ti aspetti da te stesso, come se ci fosse una sorta di disidentificazione eppure tu sei lì e ti sorprendi quasi fino a spaventarti di ciò che stai creando. Ti domandi: chi è che è intervenuto? E poi Orfeo viene dilaniato dalle baccanti, ed è una bellissima fine, direi auspicabile.

Tornando alla memoria, che ricordo ha del capolavoro di Alain Resnais “L’anno scorso a Marienbad”(1961) del quale fu protagonista?
“Aspettavo, avevo tempo, ho sempre creduto di avere tempo” dice il mio personaggio ‘X’. È un film rarefatto, quasi impalpabile, labirintico, di una bellezza indefinibile, che ha coinvolto tante cose. In quel periodo in Francia c’era un grande fermento culturale: il nouveau romance, robbe grillet, che firmò la sceneggiatura. Il film è geniale, scandito quasi con un linguaggio e con uno stile proustiani. Vi si affronta il tema della riappropriazione di un’identità frammentata, quella della donna protagonista e, naturalmente, il tema della memoria, che sembra inafferrabile, ma poi non è così. Io non mi piaccio, avrei potuto essere migliore, il mio mister X non mi soddisfa riguardandolo oggi. L’avrei fatto recitare ad Al Pacino, con quello sguardo sperduto e quella voce. Il film vinse il Leone d’Oro al Festival di Venezia e aver recitato in quell’opera significa essere entrato nella storia del cinema.

Il cinema non la incuriosisce più?
Ho girato due film come regista e ho un altro progetto in cantiere. Come attore, la pura verità è che , malgrado le magnifiche presenze femminili, il cinema mi annoia perché per me è un po’ troppo semplice. Essere così ‘in pelle’, non mi stimola, non mi pungola. Laddove il teatro è psiche profonda, il cinema è meramente pelle, soma. È una sorta di primo piano continuo, se hai un brufolo non puoi filmare. In teatro vai in scena anche se sei zoppo. Il teatro pesca in ben altre zone dell’essere.

In molte interviste ha dichiarato di esser stato il primo ‘velino’ della storia, ce lo vuol spiegare?
Ho iniziato col teatro, poi sono passato in tv e sono diventato popolare. Grazie alla mia notorietà televisiva, la compagnia teatrale della quale faceva già parte la bravissima Anna Proclemer mi contattò. Chiamarono me, come se oggi per fare uno spettacolo ingaggiassero una star televisiva, così per richiamare pubblico e rimpinguare le tasche del botteghino teatrale. Come se io prendessi Elisabetta Canalis in un mio spettacolo, che poi secondo me lei sa recitare, ma lo penso solo io, temo.

Non sarebbe una novità. Lei ha avuto accanto donne belle, avvenenti, che spesso non avevano calcato la scena teatrale, ricordo Valeria Marini.
Io avevo un’idea su di lei, volevo lei per quello che era, non volevo trasformarla, anche perché ci vorrebbero degli anni. Ha perso una grande occasione, ma era talmente innamorata di Cecchi Gori che non veniva mai alle prove. Valeria è simpatica, intelligente, ha una certa vitalità, manovra questo suo corpo ridondante in maniera abbastanza disinvolta, ma non si presentava in teatro ed io mi sono pure un po’ incazzato. Lei compariva su un’altalena, era molto bella, peccato, l’idea di quell’adattamento dell’Angelo Azzurro era formalmente interessante, dai costumi, alle scene, alla regia.

Ricordo che nella trasmissione tv ‘Chiambretti Night’ lei declamava versi fuori campo mentre una soubrette brasiliana si spogliava togliendosi di dosso delle pagine. Un’antitesi perfetta. Una sorta di sacro e profano. Non c’è differenza fra una cultura ‘alta’ e una cultura ‘bassa’, popolare?
Quella era un’ idea volutamente provocatoria, mi divertiva moltissimo. Il mio concetto di cultura è quello per cui tutto ciò che cambia le cose è cultura; è un modo di vivere. Una canzone di Vasco Rossi, in un dato momento, vale quanto una poesia di Giacomo Leopardi. Sono contro le accademie, ho istituito una scuola di dissuasione teatrale, è un’antiscuola. Fra qualche giorno andrò in Calabria per dirigere un festival e porterò con me gli allievi che ho selezionato accuratamente. Non sono tutti giovanissimi, alcuni hanno settant’anni. (ride)

Politicamente dove si colloca?
Per mia natura sono un anarchico, per essere più precisi mi sono sempre definito un anarchico di centro. Nel senso che non amo la violenza, che ha pure una sua bellezza, ma le vittime della violenza sono sempre i più deboli, quindi la rivoluzione armata non mi interessa. Mi interessano, invece, le battaglie per i diritti civili. Parlavo oggi con Marco Pannella, ho fatto tutte le battaglie con i radicali, dal divorzio all’aborto, le ho sostenuto tutte e ho trascorso molte notti insonni con loro. Tra l’altro ho detto a Marco di smetterla con questo digiuno e l’ho invitato a cena. Sono anche a favore della campagna che vorrebbe Marco Pannella senatore a vita, sarebbe bello dopo tutte le battaglie civili che ha combattuto.

Che ne pensa di questo Governo?
Non è il peggior Governo che abbiamo avuto, però è incappato in un momento molto difficile. Aveva ragione Benito Mussolini quando diceva che gli italiani sono ingovernabili. Sono impossibili, perché sono individualisti, ma poi nemmeno tanto, perché hanno bisogno di un complice e , aggiungerei, anche di un padre. Sono fantasiosi, ma nello stesso tempo sono completamente indisciplinati. E poi è un paese totalmente dominato dalla burocrazia,chi comanda in Italia è la burocrazia, quest’apparato che è paragonabile soltanto al vecchio regime sovietico.

Lei va a votare?
A malincuore. Non scriva però che sono un facente parte dei nuclei proletari armati. Ironia a parte, il problema attuale in Italia è che si progredisce poco, raramente nella scienza, pochissimo nelle arti. La verità è che se tu vuoi fare una cosa, hai un’idea, un’iniziativa, non è che non te la fanno fare, ti osteggiano con la burocrazia. Torniamo sempre lì. Se devi compilare dei moduli, alla fine non porti a termine nulla, perché ne manca sempre uno e la tua idea resta solo un’entità astratta che non si concretizza.

Lei che è stato dal 2002 per ben cinque anni direttore del Teatro di Roma, che idea si è fatto della mobilitazione dei suoi ‘colleghi’ in favore del Teatro Valle ?
Credo che sia l’azione più stupida che potessero fare. Nessuno pensa di fare del Valle un mercato rionale, chi l’ha detto? Mi sembra una reazione fuori tempo. Io credo anche in questo tipo di pressioni, ma nel suddetto caso mi sembra che questa gente voglia soltanto esibirsi su un palcoscenico prestigioso. Per ora il teatro Valle è affidato al Teatro di Roma che lo può gestire. Sarà del Comune di Roma? Non lo so. Solo allora si vedrà e si potrà reagire di conseguenza ed eventualmente fare delle dimostrazioni. In quel caso bisognerà trovare uno sponsor e sappiamo tutti che costa milioni di euro gestire un teatro. E allora, sì, che sarà necessario fare una vera e propria rivoluzione con delle idee. Non certo ora che è scattato un allarme rosso senza avere un motivo valido.

Mariagloria Fontana

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Intervista a Michela Murgia


Intervista a Michela Murgia
pubblicata dal settimanale ‘Il Futurista’diretto da Filippo Rossi nel numero uscito venerdì 20 giugno 2011

“Donna non si nasce, lo si diventa. Nessun destino biologico, psichico, economico definisce l’aspetto che riveste in seno alla società la femmina dell’uomo: è l’insieme della storia e della civiltà a elaborare quel prodotto intermedio tra il maschio e il castrato che chiamiamo donna”, così scriveva Simone De Beauvoir nel suo celeberrimo ‘Il secondo sesso’, era il 1949. Nel 2011, la scrittrice Michela Murgia pubblica il suo ultimo libro:”Ave Mary”, edito da Einaudi, in cui racconta della mancata rappresentazione delle donne come soggetto attivo da parte di una società ancora influenzata dai dettami della chiesa cattolica e dalle interpretazioni fallaci sulla figura di Maria di Nazareth. L’autrice dedica il suo saggio a tutte le donne, ma anche a quegli uomini ‘che ci vorrebbero belle e silenti’ e a ‘Il Futurista’ parla di chiesa, quote rosa, femminismo, bellezza, della Gelmini e della Carfagna, non lesinando parole sulla sua passione per la saggistica e per Zygmunt Bauman di cui ha preso in prestito la teoria economica per spiegare questioni religiose.

“Ave Mary” è un viaggio a ritroso che attraversa le nostre tradizioni cattoliche per spiegare la questione femminile attuale ?
Non ho la pretesa di gettare uno sguardo ‘accademico’ sulla questione femminile che è estremamente complessa e ha dei contributi molto più qualificati del mio. ‘Ave Mary’ è più un libro esperienziale che di sentenza. Nel senso che parte dall’analisi di alcuni aspetti che mi colpiscono della situazione attuale della donna e cerca di ricostruire quale sia stata l’influenza della cultura cattolica su questi stessi.

Lei corrobora le sue argomentazioni citando varie fonti da Tertulliano a Papa Giovanni Paolo II. Quella che colpisce maggiormente per la sua ‘modernità’ è la riflessione di Papa Giovanni Paolo I su Dio che è Padre, ma è anche Madre. Eppure, nonostante un concetto così innovativo, nella Chiesa non c’è stata una naturale ‘progressione’ verso la prospettiva femminile. La Chiesa ha paura?
La chiesa sicuramente ha paura. Bisognerebbe chiedersi per quale motivo. Spesso, accade quando c’è un potere consolidato in gioco che chi lo detiene non sia disposto a metterlo facilmente in discussione. La Chiesa è un luogo di conservazione, non è un luogo di progresso, sono le spinte esterne alla Chiesa che possono farle compiere dei passi avanti, ma essa di per sé tenderebbe a non muoversi mai e, se è possibile, a lasciare le cose come le ha trovate. Anche quando i Papi si sono apparentemente esposti su delle questioni, è il sistema che ha impedito e impedisce di fare passi avanti. L’unico momento in cui è stato fatto un salto in avanti è stato il Concilio Vaticano II.

Il suo libro termina con un’ ‘apertura’ nei confronti della figura di Maria: “Dio ha destabilizzato la gerarchia patriarcale tra l’uomo e la donna, facendo di una ragazza la massima complice della salvezza del mondo”.
Certo, il mio è un approccio da credente non da anticlericale. La questione che mi pongo è quella delle cattive letture della figura di Maria, perché sono sicura che tante donne credenti devono a quella lettura la loro sofferenza spirituale di genere e credo, per certi aspetti, anche molti uomini. Il tema della differenza femminile e dell’emarginazione femminile è stato affrontato numerose volte, dagli anni settanta a oggi, ma si è tenuto poco conto della prospettiva delle donne credenti. Sovente, il femminismo si è posto come istanza anticlericale, perché la Chiesa era un soggetto patriarcale alla massima potenza. Credo che questo sia un tempo buono per provare a fare pace fra le giuste rivendicazioni femministe e il diritto di chi crede a non veder distrutto il proprio impianto di fede.

Stiamo assistendo a una ‘rinascita’ del femminismo, una sorta di neofemminismo ?
Il femminismo non è mai morto, per quanto ne abbiamo cantato il requiem tante volte. Le donne hanno continuato a riflettere su se stesse. Da certe posizioni, che le donne negli anni settanta hanno acquisito con le loro lotte, è impensabile tornare indietro. Quello che manca alle donne della mia generazione è la consapevolezza di muoversi dentro conquiste recentissime che vengono da un passato davvero vicino, ma oggi ci sono delle battaglie e le combatteremo, perché in fondo la guerra è sempre la stessa.

Lei ha sostenuto la manifestazione nazionale ‘Se non ora quando”.
Ho partecipato dalla piazza di Verona salendo sul palco a dare la mia lettura. Quello è stato il giorno in cui abbiamo tutti capito che il vento stava cambiando, perché questo governo si basava sul consenso tacito delle donne, comprese quelle cattoliche. Quella manifestazione, che colpiva la più evidente delle culture maschiliste, ma non l’unica, ci tengo a specificarlo, non fu politica contro la destra. Anche la sinistra ha i suoi problemi con la questione femminile, più nascosti, ipocritamente negati, non così arrogantemente propugnati, ma le donne devono guardarsi da tutte le direzioni.

Quali sono i problemi della sinistra nei confronti delle donne?
La battaglia per le quote rosa in politica vale per la destra come per la sinistra. Gli uomini non intendono fare spazio nei posti di potere in nessuno schieramento.

Non ritiene che le quote rosa siano un fenomeno discriminatorio al contrario?
Ma in che modo?Le quote rosa sono necessarie, dovrebbero essere una direzione obbligata. Non servono a garantire più donne competenti, ma servono a garantire più donne quantitativamente e basta. Mi piace spostare il discorso, le faccio un esempio. Tra i fumatori e i non fumatori, se non ci fosse stata la legge Sirchia, i fumatori non avrebbero mai diminuito il pensiero del proprio diritto a fumare fino a rendere ai non fumatori gli ambienti insalubri. La legge Sirchia ha creato una mentalità secondo la quale i non fumatori hanno diritto a respirare un’aria sana e il loro diritto vale tanto quanto quello degli altri e non dev’essere vilipeso. Sono convinta che le leggi coercitive abbiano il valore di creare una mentalità, perché nulla avviene spontaneamente.

Cosa ne pensa dell’emendamento Germontani che prevede, a partire dal 2015, il 30% delle donne nei Cda di aziende quotate in Borsa e a partecipazione pubblica?
Il 30% è una percentuale credibile, ma non è sufficiente, mi sembra ancora bassa. Tiene conto del fatto che le donne sono meno disposte ad assumersi ruoli di responsabilità, perché hanno ancora a carico i pesi della gestione dello stato sociale. Di fatto, sono considerate un ammortizzatore sociale. Una donna che fa figli, nonostante voglia assumersi più responsabilità nel lavoro, tendenzialmente dirà di no. Non lo affermo io, è il Governatore della Banca D’Italia Mario Draghi che sostiene che se l’Italia raggiungerà i livelli di occupazione femminile europea, ci sarà un aumento di diversi punti percentuali del Pil.

La sociologa britannica Catherine Hakim ha scritto che l’eros genera potere e per questo motivo le donne investono sul sex appeal, che lei definisce:’capitale erotico’ mettendolo al pari di altri capitali: economico, culturale ecc. C’è interesse da parte di uomini e donne a mantenere attivo il mercato del sesso e il valore di questo tipo di capitale sta aumentando nel tempo.
Lo sappiamo dai tempi di Madame de Pompadour che il sex appeal è un vantaggio. La novità è che venga legittimato al pari di un’altra competenza. Il nostro paese si pregia di voler raggiungere la meritocrazia mentre, in realtà, l’assenza di quest’ultima è il problema di tantissimi settori bloccati. Pensare di investire su una cosa che non è merito di nessuno, perché essere belli non è un merito, è frutto di nessun impegno e di nessun percorso, mi pare mortificante. Mi sembra che si voglia mettere un’aria accettabile a quella che resta una furberia.

Che cos’è la bellezza ?
Non associo la bellezza ad una condizione fisica, perché la bellezza è un bene duraturo, invece il corpo non dura. Non ho mai pensato di raggiungere dei traguardi nella mia vita attraverso la bellezza. Qualcuno potrebbe dirmi che è perché non sono bella come Nicole Minetti. È una sciocchezza. Qualunque donna sa perfettamente che quella possibilità è alla sua portata nel suo ambiente. Magari non sarà una bellezza strepitosa ma tutte, almeno una volta nella vita, ci siamo sentite fare l’offerta che avrebbe agevolato un percorso, una carriera. Non c’è bisogno di essere bellissime, perché l’uomo non cerca la donna bellissima, cerca la donna disponibile. Il tuo livello di usabilità, la tua possibilità di farti usare, non dipende tanto dalla tua bellezza, ma da fino a che punto sei disposta ad accettare di fare quello che ti chiedono di fare. Per me la bellezza è fuori da questo discorso, non c’entra nulla, è un’altra cosa. È davvero un valore aggiunto, ma nella sua complessità, non nella sua estetica. Tutte le donne che credono che la bellezza corrisponda all’estetica, saranno sempre costrette ad andare dal chirurgo plastico, nel momento in cui il tempo lascerà il segno sul loro deperibile patrimonio. La bellezza è qualcosa che aumenta col tempo, non diminuisce.

Cos’è il talento?
Talento è un termine strano, preferisco la parola: ‘competenza’, perché il talento sembra un bene infuso dal cielo grazie al quale ci sono quelli che sanno dipingere, che sanno suonare. Mi piace di più il concetto di competenza, che rivela un percorso di costruzione. Per cui esistono delle persone che sanno fare delle cose o che sanno delle cose, perché le hanno studiate, le hanno messe in pratica, si sono esercitati e hanno raggiunto un livello di eccellenza nel proprio saper fare. Sarebbe un Paese giusto quello in cui chi ha queste competenze arriva ad una collocazione corrispondente. L’Italia non è questo, anzi, è il suo contrario. I più cialtroni si trovano nei posti migliori e i nostri migliori cervelli sono costretti a farsi apprezzare altrove.

C’è un antidoto ?
Cambiare la classe politica, prima di tutto. Ma non sostituendo la destra con la sinistra, perché entrambe hanno concesso credito più all’incompetenza che alla competenza. Credo che sia necessario un processo culturale, perché l’italiano, come dimensione culturale, ha problemi con la meritocrazia. Si comincia facendo una telefonata all’amico politico per far vincere un concorso al figlio e poi magari ci si lamenta in piazza se non lo supera. Tutti pensano che il discriminato sia il proprio figlio e non si riflette sul fatto che magari il figlio dovrebbe fare uno sforzo in più per raggiungere la competenza che quel posto richiede.

Che idea si è fatta dell’esito delle ultime amministrative?
Per quanto concerne Milano, c’ è stato un segnale di forte rottura con il passato. Pisapia è una persona competente che non avrei avuto nessun problema a votare se fossi stata di Milano. È onesto, preparato, competente, è il politico con cui è possibile immaginare un futuro. Io mi disarmo quando in consiglio regionale può entrare un asino scolastico come il figlio di Bossi e nessuno scende in piazza a fare una rivoluzione. Ora pare che il vento stia cambiando e stia vincendo la sinistra, ma aspetto la sinistra sulle scelte da compiere ed è lo stesso campo in cui è risultata debole e mancante. Non credo che adesso il mondo sarà migliore, attendo di vedere come intendono renderlo migliore. Le comunali hanno il vantaggio che ogni sindaco risponde per sé e al proprio territorio, però se a livello nazionale ci fosse una spinta popolare pari a quella che ha portato Pisapia al comune di Milano, non potrei che esserne contenta. È un processo più sano rispetto al tipo di affidamento messianico dell’uomo solo al comando, che ha contraddistinto la politica italiana degli ultimi quindici anni.

Si auspica un futuro con una donna ‘premier’?
Le donne in politica si sono dimostrate cialtrone come gli uomini e questo secondo me è un buon segno, perché non penso che siano migliori. La percentuale degli stupidi non tiene conto del genere. Il Pdl, candidando emerite signorine incapaci, ce lo ha dimostrato in molte occasioni. Di un Ministro come Maria Stella Gelmini sento di non potermi vantare come donna.

E del Ministro Mara Carfagna cosa ne pensa?
Ma figuriamoci! Ne penso tutto il male possibile e non ho mai cambiato idea. È stata messa una persona con nessuna competenza e con molti pregiudizi a guidare un settore strategico dei diritti civili di una nazione. È un atto di un’irresponsabilità istituzionale che soltanto Berlusconi poteva compiere.

Torniamo al ‘mestiere di scrivere’. Quali sono state le sue influenze letterarie?
Non amo molto la narrativa, è una mia colpa e una mia resistenza naturale. Se entro in una libreria per acquistare un romanzo, è più facile che ne esca con due saggi. Di conseguenza, non ho dei filoni autoriali molto forti. A parte narratori come Borges e Isabelle Allende, mi vengono in mente più i pensatori strutturati che mi hanno influenzato: Antonio Gramsci, Walter Benjamin e poi quelli più recenti: Gustavo Zagrebelsky, Enzo Bianchi su temi centrali come la laicità. Inoltre, amo molto Zygmunt Bauman, del quale utilizzo la teoria economica in ‘Ave Mary’ per spiegare il rapporto tra peccati, colpe-debiti ed indulgenze.

Si sente ‘nipote’del femminismo di Simone de Beauvoir?
Mi ci sono accostata da adulta e ho capito la novità del pensiero, ma ho sentito anche tutto il peso storico di un certo percorso che oggi è datato, perché ha una sua collocazione culturale differente rispetto a quella in cui vivo. Sono molto più sorella di un pensiero non così strutturato e innovativo, ma a me più vicino che è quello di donne come Nicla Vassallo, Lorella Zanardo e Loredana Lipperini.


Mariagloria Fontana

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Intervista al M° e Premio Oscar Nicola Piovani per Micromega

“L’indignazione non basta più”. Intervista a Nicola Piovani

Intervista a Nicola Piovani di Mariagloria Fontana
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Uno dei nomi per i quali all’estero ci si può vantare di essere italiani, un’attività artistica poliedrica, coronata dal prestigioso Premio Oscar nel 1997 per la colonna sonora del film “La vita è bella”. Nei prossimi giorni sarà in scena con un concerto ‘in quintetto’ presso l’Auditorium Parco della Musica di Roma. Il Maestro Nicola Piovani non si risparmia per MicroMega, con velato sarcasmo e una buona dose di critica, parla di arte, politica, vita e dei suoi prossimi progetti.

Honoré De Balzac voleva fare lo scrittore a tutti i costi ed ebbe degli iniziali insuccessi ma, convinto che sarebbero arrivate delle grandi soddisfazioni, non desistette. Bruce Springsteen ricorda di aver intuito da subito che avrebbe fatto qualcosa di importante con la musica. Maestro, lei quando ha capito che la musica sarebbe stata determinante nella sua vita?
No, non l’ho mai capito. Per quel che ricordo non c’è stato un momento preciso in cui io mi sia convertito alla musica. Da sempre, da bambino, la musica è stata presente nelle mie giornate e, da molti anni, è il mio mestiere, il lavoro di cui vivo, in tutti i sensi. La musica ha ancora la capacità, a volte di sedurmi e, altre, di sorprendermi, in qualsiasi forma: un madrigale di Monteverdi, un passaggio orchestrale di Verdi, un solo di Brad Mehldau, una macchietta di Cioffi-Pisano, un’invenzione timbrica di Morricone, una bella ruffianata di Lloyd Webber, una parodia di Stefano Bollani, la fisarmonica di Germano Mazzocchetti, il violoncello di Giovanni Sollima. In questo momento, per esempio, sono euforico perché ieri sera ho assistito al Nabucco diretto da Muti.

Che ricordi ha della “compagnia della luna” che fondò con Vincenzo Cerami?
Altro che ricordi: la Compagnia della luna è il mio presente, è il lavoro al quale dedico molto del mio tempo. L’attività artistica della compagnia non s’è mai interrotta, pur fra tanti intoppi di tipo burocratico e amministrativo. Negli ultimi anni abbiamo realizzato, fra l’altro, Concha Bonita, Semo o nun semo, L’isola della luce, La cantata dei cent’anni, Epta, La guardiana del faro, Padre Cicogna, tutti titoli di cui come produttore sono orgoglioso e che, prima o poi, tornerò a distribuire. Il teatro musicale è per me la forma più affascinante di attività artistica che esista.

Lei ha composto la sigla di Anno Zero e l’anno scorso l’ha suonata dal vivo nella puntata ‘speciale’ della trasmissione di Santoro intitolata: ‘Rai per una notte’. Cosa l’ha spinta a partecipare alla trasmissione?Ritengo che sia necessario difendere la libertà di espressione, di stampa, di pensiero, fino in fondo, senza entrare nel merito dei valori. Un giornalista, o un artista, che viene censurato perché non piace a chi governa, come è successo a Santoro, Luttazzi, Biagi, Guzzanti e a tanti altri meno noti, va difeso senza necessariamente condividerne le posizioni. È una questione di metodo, non di merito. Può piacermi o non piacermi il battagliero Santoro, o l’eroica Gabanelli, o il prezioso Fazio, non conta e non deve contare per esprimere la mia solidarietà. Lo scriva questo, perché per me è importante. Ho aderito alla manifestazione di Michele Santoro non perché è un grande giornalista o perché condivido buona parte delle sue idee. Avrei aderito anche a una manifestazione in difesa del Bagaglino, se Prodi avesse minacciato di chiuderlo perché infastidito dalle loro satire. Sono andato a suonare di persona a Rai per una notte a Bologna, e lo rifarei, anche se Luttazzi, per esempio, non mi fa ridere. Ma certe cose vanno fatte, come dice Totò, a prescindere.

Un artista ha anche una coscienza politica e civile. Cosa le sta dicendo la sua in questo momento?
Mi sta dicendo che chi mal governa alza ogni giorno il tiro e chi si oppone rischia di perdere la bussola. Sento un gran bisogno di un parlare chiaro, di discorsi limpidi, rigorosi, di chiamare le cose col loro nome. Invece, mi imbatto continuamente nelle frasi fatte dell’aria fritta e della segatura zuppa: “qui il discorso è un altro”, “ci vuole una risposta politica”, “non è questione di destra e sinistra”, “la verità è una sola”, “la ragione sta nel mezzo” e fregnacce simili. Il bla bla bla ci mortifica. In più c’è il dramma del narcisismo, un virus che sta infettando sempre di più l’ambito politico italiano, non solo nella maggioranza. Un tempo, la vanità individualista era una tipicità degli attori. Se si guarda la politica in tv, la frase a effetto conta più del rispetto per la verità, il fondotinta vale più delle idee. Il Processo di Biscardi è il modello dialettico di molte trasmissioni televisive sulla politica e tutti fanno a gara per andarci.

Cosa ne pensa di manifestazioni come quella di qualche sabato fa in difesa della Costituzione? Se glielo avessero chiesto avrebbe partecipato?
Se non fossi stato impegnato per lavoro avrei sfilato nel corteo. Ma ormai aderisco a queste manifestazioni con un crescente senso di impotenza. “Basta”, titolava per l’ennesima volta una testata meritevole e indipendente, “Basta” recitavano molti striscioni. “Basta” urlavano i manifestanti. Mi viene in animo un doloroso interrogativo: “Basta” e poi? Cosa diciamo? “Basta” e basta? Siamo in molti ogni volta a sfilare indignati; poi però ci sparpagliamo quando si va a votare, cioè nel momento pratico che più conta nelle nostre democrazie. Nelle urne elettorali l’indignazione non si compatta, ci arriva in ordine sparso, i numeri premiano la destra, e noi torniamo a sfilare indignati e a strillare “Basta!” e basta. Come si può fare in modo che la banda di Arcore abbia almeno una decina di parlamentari in meno dell’opposizione?
Mi viene in mente Achille Campanile: “Basta di dire ‘Basta’ e basta. Non basta!”

I tagli alla cultura (poi annullati, nda) e alla scuola pubblica, i finanziamenti alle scuole paritarie previsti da questa finanziaria varata dal Governo. Il Maestro Piovani che idea si è fatto in merito a ciò?
Il Fus è stato ripristinato, grazie anche alla protesta di tanti lavoratori dello spettacolo. Una piccola nota di ottimismo per il settore, meno per la benzina. Vuol dire, comunque, che nella maggioranza c’è qualcuno che rispetta le cose belle. Invece, l’immagine che danno sia il premier sia i ministri più importanti è quella di persone che detestano la cultura e i libri che non siano i libri contabili da taroccare, deprecano il teatro che non sia quello con le gnocche e le chiappe al vento, la musica che non sia il piano bar dei festini. Infine, odiano la poesia in blocco, compresa quella di Bondi.

“La vita è bella” a parte, a quale dei film per i quali ha scritto la colonna sonora è più legato o ricorda con maggiore nostalgia?
La nostalgia è variabile, di mese in mese, e rischia di farti vivere con la testa girata all’indietro. La nostalgia è la vigilia del capolinea. Va tenuta a bada. Preferisco pensare a oggi, anzi, a domani: “La conquête”, un film di Xavier Durringer che ho musicato di recente, in uscita a maggio in Francia e la mia prossima opera da concerto: “Viaggi di Ulisse”.

Lei ha musicato, tra gli altri, film di Fellini, Bellocchio, Monicelli, i Taviani, Benigni, Moretti e molti altri grandi autori italiani. Cosa ne pensa del cinema italiano attuale?
Considerate le condizioni produttive veramente mortificanti, i cineasti italiani mi sembra stiano facendo miracoli. Produciamo poco, ma abbiamo una buona, buonissima media; a parte poi alcuni film magnifici degli ultimi tempi, da “Gomorra” a “Vincere” a “Una vita tranquilla”.

Lo hanno definito per molti anni il naturale erede del Maestro Morricone, le fa piacere o no? Lei ha incontrato il suo Sergio Leone?
Troppo onore, magari! Ennio Morricone è un maestro vero, in tutti i sensi. Io ho imparato molto da lui e non sono l’unico. Ho imparato ascoltandolo, studiandolo, conversando con lui di musica, spiandolo mentre lavora, chiedendogli consigli e non solo. Credo che la stagione western di Leone-Morricone sia irripetibile. Da parte mia però ho avuto la fortuna impagabile di lavorare con grandi artisti che qualche volta sono anche amici veri.

La bella musica è sempre immediata e arriva dritta al cuore come la sua?
La ringrazio del complimento, ma esistono tanti tipi di buona musica. C’è una musica più complessa che per essere amata ha bisogno di molta attenzione, di concentrazione, di curiosità. C’è, all’altro polo, una musica alla quale bastano quattro note e due accordi per colpire al cuore. Io in questo momento sono molto attratto dalla complessità dell’Anello del Nibelungo di Wagner, per esempio. Ma resto sempre a bocca aperta davanti a certe canzoni napoletane o spagnole che, con otto battute, hanno la capacità di inumidirmi gli occhi e il cuore.

Rota-Fellini, Morricone-Leone e, non ultimi, due film italiani che vinsero l’oscar come “Nuovo cinema Paradiso” di Tornatore con la musica di Morricone e “La vita è bella” con la sua memorabile colonna sonora da Oscar. Quanto deve un film alla sua colonna sonora e viceversa?
Non esagererei, il campionario è vasto. Ci sono film che senza musica crollerebbero e altri che potrebbero farne completamente a meno. Ci sono anche quelli distrutti da una musica sbagliata. Ma non mi chieda di fare un esempio.

Cinema, teatro, musica. Al di là delle grandi soddisfazioni professionali che ha ottenuto, cosa vorrebbe ancora realizzare?
Il mio sogno resta sempre lo stesso: gestire un teatro musicale in cui organizzare concerti, opere, operette, musical, poesia, prosa. Un teatro vivo e moderno, che coltivi il suo pubblico, che lavorando quotidianamente faccia amare il teatro a chi ha meno di 25 anni. Che possa contare su un poco (ho detto un poco) di fondi pubblici, da gestire con trasparente efficienza, senza però che ci si mettano di mezzo la politica e di conseguenza il clientelismo. Ma naturalmente è un sogno che resterà sogno. Di questi tempi poi…

(4 aprile 2011)

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Intervista a Giancarlo De Cataldo- “I Traditori”( Einaudi 2010) per lo ‘speciale’ dei 150 anni dell’Unità d’Italia su Micromega.net

Intervista a Giancarlo De Cataldo -‘I Traditori’.
pubblicata per i 150 anni dell’Unità d’Italia su Micromega. net

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Storia, finzione e mito. Ci spiega brevemente come ha mescolato questi elementi nel suo ultimo libro: ‘ I Traditori’?
La premessa è che racconto il Risorgimento da scrittore, non da storico, quindi ho una predilezione per le vicende avventurose, racconto la storia un po’ come fosse un grande romanzo d’appendice, un feuilleton. È una sorta di riappropriazione della storia, priva di elementi retorici. Un Giuseppe Mazzini quasi da fiction e paradossalmente più corrispondente al ‘vero’ di quanto ci hanno tramandato. La verità è che per fondare una nazione si è costretti a ricorrere a metodi rivoluzionari che sono la cospirazione, la violenza e la guerra. Questo atto fondante della nostra nazione lo abbiamo un po’ rimosso avvolgendolo da una patina di retorica e, invece, le cose , leggendo i documenti dell’epoca, non stavano così come ce le hanno raccontate. Questo è un po’ il senso dell’avventura de ‘I Traditori’.

Eroi o traditori, chi sono i rivoluzionari protagonisti del Risorgimento da lei descritti?
Nella storia, ma anche nei racconti, nessuno è mai eroe a 360 gradi come pure non è mai completamente traditore. Il mio libro è un epos onnicomprensivo, ci sono episodi turpi, affari loschi, ambizioni politiche, ma soprattutto tanti giovani entusiasti e generosi; elementi apparentemente antitetici convivono assieme. La storia, sovente, ci racconta peggio di come siamo. Ma nell’oscurità delle nostre debolezze c’è la luce, come pensavano i rivoluzionari. Eppure noi la reprimiamo questa nostra storia d’Italia.

Curzio Maltese ha definito il suo romanzo “il lato oscuro del risorgimento”, è d’accordo?
Come le stavo dicendo, credo che in quella oscurità ci fosse anche della luce, perché come si fonda una nazione? Con la guerra. E come si fa la guerra? nel modo in cui hanno pensato i rivoluzionari, raggiungendo un obiettivo con una certa eterogenesi dei mezzi, cioè non arretrando. Oggi, se pensiamo a due grandi problematiche italiane irrisolte, è ben diverso, perché non siamo andati avanti. Mi riferisco alla disparità fra l’Italia del nord e quella del sud e alla presenza della criminalità organizzata. C’erano allora e sono rimaste anche adesso. Man mano che scrivevo, pensavo che stavo scrivendo un romanzo sull’oggi o, almeno, che si può leggere come un romanzo sull’oggi.

Lei descrive il Risorgimento anche come una grande rivoluzione generazionale. Oggi sarebbe possibile ?
Questa non è una fase rivoluzionaria. Viviamo in una democrazia, sappiamo che si conquista il consenso con le elezioni e poi si governa. Non si possono fare dei paragoni così stretti. Certo è che siamo sicuramente in una fase di grande confusione. L’Italia è in un momento di stanchezza, di disgregazione. I giovani sono disoccupati, oppure sono rincoglioniti dallo sballo, o sono del tutto indifferenti. In questo quadro generale, una raddrizzata sarebbe opportuna. È ovvio che non è la guerra ciò di cui abbiamo bisogno, ma necessitiamo di una ricostruzione culturale, di un tessuto culturale che il Risorgimento possedeva. Il nostro è un Paese molto malato.

Il suo celebre “Romanzo criminale” è divenuto un film di successo e poi un serial tv di culto. Ma quanto c’è di cinematografico nei suoi romanzi?
Dal cinema, come spesso mi accade, vengo influenzato moltissimo. Il cinema ha sempre accompagnato la mia vita e ha nutrito il mio immaginario. Da bambino andavo a vedere i film di cappa e spada, ne ero affascinato, e poi c’erano i racconti di mio padre e di mio nonno, le storie comuni della gente, vivide nella mia memoria, e per come le ho vissute molto vicine al cinema e anche al mio amore per il teatro.

Come nasce la sua collaborazione con Mario Martone, regista di “Noi Credevamo” ( tratto dal libro omonimo di Anna Banti, nda) del quale lei ha firmato la sceneggiatura ?
Con Martone siamo amici da molti anni. Ci siamo ritrovati in vacanza assieme in Puglia e tra una mozzarella di bufala e una battuta è nata la voglia di fare assieme questo film. Tuttavia, ‘Noi Credevamo’ è un’opera totalmente di Mario, io ho dato solo un piccolo apporto. Ritengo Mario uno dei pochi veri geni che abbia l’Italia. È un talento preziosissimo. Come diceva Carmelo Bene: “ il talento fa quello che vuole, il genio fa quello che può”.

Sulla copertina de ‘I Traditori’ campeggia una donna di un quadro di Dante Gabriel Rossetti e come tutte le figure care al pittore è carnale, dotata di sensuale erotismo. La figura delle donne nel suo romanzo, invece, com’è?
Per quanto riguarda la copertina del libro, amo follemente le opere di Dante Gabriel Rossetti. La sensualità delle sue donne fa parte di quell’immaginario personale, di quei ‘fantasmi erotici’ che ognuno ha e che porta con sé. Inoltre il pittore e poeta Rossetti è vissuto in quegli stessi anni in cui è ambientato il mio romanzo. Le donne del mio libro possiedono una passionalità e una sensualità che hanno le proprie radici nell’ ambientazione storica e geografica sia dell’Italia che dell’Inghilterra di quell’epoca nelle quali è narrato il romanzo. Parte della storia che racconto si svolge a Londra, è un ‘Inghilterra quasi gotica, non tutto era appiattito, c’era un fondo sotteso anche peccaminoso, ma non svelato e non massificato. Penso alla decadenza della società vittoriana narrata mirabilmente da Charles Dickens, tanto per intenderci. Le donne protagoniste del mio romanzo sono la Striga, creatura misteriosa dai capelli rossi con un intuito precoce per la matematica, e Lady Violet Cosgrave , la nobile passionaria inglese che si innamora dei rivoluzionari italiani. Striga e lady Violet raffigurano i due riferimenti femminili principali, forse sono le figure più positive dell’intero romanzo. Striga con il suo lato magico-visionario e Lady Violet sul versante razionalista rappresentano due chiavi di lettura possibili, diverse ma entrambe efficaci, di progresso, di cambiamento della civiltà.

Mariagloria Fontana

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Professione reporter. Intervista a Giorgio Fornoni (“Report”)

pubblicato su Micromega www.micromega.net

Professione reporter. Intervista a Giorgio Fornoni

di Mariagloria Fontana

Ha viaggiato in tutto il mondo realizzando dal 1993 al 2010 più di cento inchieste e videoreportage, documentando guerre, violazioni dei diritti civili e incontrando personaggi di spicco. Nato ad Ardesio dove vive e lavora (ha uno studio da commercialista), nel 1999 Milena Gabanelli lo ‘scopre’ attraverso il suo straordinario ‘materiale’, fino ad allora inedito. Inizia così una proficua collaborazione con la trasmissione “Report” di Raitre. Il suo primo libro, accompagnato da un dvd, si intitola “Ai confini del mondo” e racchiude le esperienze giornalistiche (im)possibili di un uomo ‘comune’.

LEGGI UN ESTRATTO Giorgio Fornoni intervista Anna Politkovskaja

Chi la conosce sostiene che il suo giornalismo sia ‘mistico’. Trova confacente questa definizione?
Ho avuto la fortuna di potermi occupare di ciò che più mi stava più a cuore, vale a dire: tematiche sociali ed ambientali. Quando ho realizzato l’inchiesta sulla pena di morte nel mondo per ‘Report’ mi sono sentito preso da una sorta di viaggio mistico. Indagare sulla sofferenza dell’uomo che procura altra sofferenza è un’esperienza inenarrabile. Grigorij Pomeranc (intervistato da Fornoni nel 2007, nda) dice che il male non è percepito dall’uomo medio e per citare De André: “per tutti il dolore degli altri è dolore a metà” (tratto dalla canzone “Disamistade”, nda). Penso che sia arrivato il momento della cultura, il momento in cui l’uomo debba ridare un messaggio di vita e non di distruzione. Non so se questo mio modo di fare giornalismo sia ‘mistico’, ma voglio stare un po’ più in là in questa vita. Ciò significa andare alla ricerca della verità dei fatti e raccontare quello che vedo.

Come nasce la voglia di viaggiare in giro per il mondo e di documentare situazioni pericolosissime?
Quand’ero giovane volevo diventare un missionario. Quindi, a undici anni, andai in collegio grazie ad un prete comboniano che conoscevo. Dopo quaranta giorni, mio padre, al quale mancava suo figlio, venne a riprendermi. Dopo tutti questi anni, posso dire che fece la cosa giusta. Successivamente ho lavorato come garzone di bottega per ben dodici ore e mezza al giorno ed è stato così fino all’età di diciotto anni. Quando finalmente capii che non volevo continuare a fare quella vita, mi rimisi a studiare. Di giorno lavoravo e di sera frequentavo la scuola.

Poi cosa accadde?
Mi diplomai e mi iscrissi all’università. In seguito, aprii uno studio da commercialista che tutt’ora possiedo, ma che gestiscono per me delle persone fidate. Più il mio lavoro andava bene e più mi dava la possibilità di essere libero nelle scelte e nei viaggi che facevo. Intendo dire che non mi serviva pubblicare un pezzo o mandare in onda un mio filmato per vivere. La mia passione giornalistica era svincolata da tutto. Lo studio da commercialista mi ha sponsorizzato la vita. Ogni volta che partivo e che vedevo tutta quella sofferenza per me era come una “droga”. Ma dove c’era sofferenza c’era anche tanta dignità.

Ha un ricordo in particolare?
Sì, nel 1994 all’ospedale militare di Preah ket in Cambogia. Mi tornano in mente i giovani soldati mandati a combattere i khmer rossi. Ricordo le immagini di questi uomini terribilmente mutilati e sofferenti, ma pronti a tornare a sorridere.

A quando risale il suo primo ‘incontro’ significativo da un punto di vista giornalistico?
Nel 1993 arrivai in Angola e riuscii ad intervistare Jonas Savimbi (politico e guerrigliero angolano, è stato il leader del movimento UNITA-Unità Nazionale per l’indipendenza totale dell’Angola, nda), nemmeno la Cnn e la Bbc erano riuscite ad ottenere una sua intervista. Documentai i brogli elettorali successivi alle elezioni presidenziali del 1992 e che ufficialmente decretarono la vittoria di Dos Santos. Migliaia di schede con la preferenza per Savimbi e l’UNITA erano state nascoste e, volutamente, non conteggiate.

Eppure, nonostante fosse un’esclusiva mondiale, nessuno pubblicò la sua intervista.
Sì, allora non ero conosciuto e pur avendo un’esclusiva del genere nessuno la volle. La proposi a diverse testate nazionali, ma non se ne fece nulla.

Quando intervistò Anna Politkovskaja le chiese se avesse paura. Ora io lo chiedo a lei.
Nel mezzo dell’azione si ha paura, però o vai avanti o torni indietro. Vorrei ricordare Anna Politkovskaja. L’incontro con lei non fu casuale. Stavo cercando la voce più credibile, la giornalista più attendibile ed era lei. La Politkovskaja dava voce ai civili ceceni e anche ai terroristi ceceni, che erano l’altra parte di un conflitto interno nel quale l’Europa si dimenticò di intervenire. Nessuno ha fermato il genocidio di massa. La Politkovskaja mi disse che scriveva quello che vedeva ed era l’unica ‘regola’ alla quale doveva attenersi un giornalista. Invece, ci sono tanti, troppi giornalisti che scrivono senza nemmeno andare sul posto. È necessario scrivere quel che si vede perché solo stando sul campo puoi trasporre nel tuo pezzo ciò che hai provato a contatto con quella gente. Per questo motivo devi essere lì dove accadono gli avvenimenti.

Cosa pensa dei giornalisti ‘embedded’?
Una delle numerose volte che sono tornato in Cecenia sono stato nei carri armati con i soldati russi, è stata un’esperienza molto breve, ma l’ho fatto per avere anche un’altra prospettiva. A parte questa eccezione, ritengo che sia giusto stare sempre in mezzo alla gente. È necessario capire i guerriglieri e i militari, ma è fondamentale stare dalla parte delle persone comuni che vivono la guerra sulla loro pelle. Solo stando in mezzo alla gente puoi raccogliere le storie vere. Per tornare alla Politkovskaja, anche lei tentava di dare voce alla gente comune. La Politkovskaja è stata uccisa perché ha attaccato i poteri forti. Lei diceva: “paura o no, devo raccontare quello che vedo, questa è la mia professione”.

Che idea si è fatto del caso Wikileaks-JulianAssange?
Non mi stupisco per le rivelazioni di Wikileaks, anzi, ritengo che servirebbe molta più trasparenza. Se uno pensa solo all’interesse che c’è intorno al gas in Russia, viene la pelle d’oca. L’Eni, importatrice e produttrice, compra il gas, ma a quale prezzo? Sono tante le domande da farsi. In fondo, Wikileaks ha parlato del Presidente dell’Afghanistan Hamid Karzai, ma non di fatti determinanti. Bisognerebbe rivelare altro, raccontare dei reali interessi per i quali siamo in Afghanistan e di quelli che io chiamo ‘aerei di offesa’ e non di difesa. Si tratta di aerei da combattimento carichi di munizioni. Sono aerei che uccidono, ti uccidono i figli, i fratelli, i genitori, le mogli. Fanno vittime soprattutto tra i civili. Non definiamole “missioni di pace”. Non parliamo di difendere l’Afghanistan, non lo stiamo difendendo. Ho avuto la fortuna di essere a Kabul quando i talebani entravano e presidiavano la città nel 1996. Sono riuscito a filmarli, c’era una strana calma. Kabul era una città fantasma, quasi irreale. La guerra è anche una lunga attesa. Sono tornato più volte, nel 2001, dopo l’assassinio del generale Massud, e quando i talebani si sono ritirati, dopo che gli americani e gli inglesi sono entrati a Kabul.

Come reporter è tornato più volte in Cecenia durante la guerra. Cosa ne pensa dell’amicizia fra l’ex Presidente russo Vladimir Putin e il nostro Premier?
Non mi stupisce nemmeno questo. Perché ci sono cose che ignoriamo e che viaggiano sopra le nostre teste, ci tengono sotto scacco. Tutto sta cadendo nell’oblio, non si parla del mondo oscuro della Russia e del fatto che il governo sia gestito ancora dai servizi segreti. Il 67% dei deputati russi proviene dal Kgb. Ci sono troppi interessi in ballo.

Crede che ci sarà mai giustizia per Anna Politkovskaja e molti altri, fra giornalisti e operatori, uccisi mentre stavano svolgendo la loro professione?
Chissà… Comunque sono convinto che non si tratti di cercare giustizia, ma di avere più rispetto, più tutela per chi prende seriamente il proprio lavoro. Tutti quelli che raccontano la verità dovrebbero diventare ‘intoccabili’. Ci sono ancora giornalisti veri, non quelli da scrivania. In Russia non è facile fare questo mestiere, perché se non è Putin, sono gli oligarchi che decidono, omettono, mistificano la verità. Lo avevo denunciato anche nella mia inchiesta sul gas. Il mio prossimo progetto sarà un’inchiesta sui giornalisti russi uccisi. Un lavoro difficile, perché dovrò entrare nelle maglie dell’ex Kgb, dell’attuale FSB, più in generale dei servizi segreti e del Cremlino.

Quando torna dai suoi viaggi come fa a reinserirsi nella nostra ‘civilissima’ realtà?
Infatti, sento sempre il bisogno di disinfettare la mia ‘ferita’. Mi è accaduto soprattutto dopo aver assistito alla pena di morte di un condannato attraverso un’iniezione letale. Mi rifugio in un eremo che mi sono costruito dopo che tornai dal Tibet e che ero scampato al dirottamento dell’aereo sul quale viaggiavo. Due volte all’anno lascio una parte di questo eremo a dei frati francescani che anni fa mi chiesero se potevo ospitarli.

Ha mai provato rancore nei confronti di chi ha avuto più fortuna di lei?
No, non faccio nulla per successo personale. In questo senso mi rappresenta bene la frase della Gabanelli che di me disse: “giornalista non per interesse giornalistico, ma per documentare le tragedie umane a se stesso”. Questo libro è nato dalla volontà del direttore editoriale di Chiarelettere che mi ha chiesto di raccontare la mia esperienza e, giunti alla mia età, ne sono contento. Gli uomini non dovrebbero nascere per le gratificazioni, ma semplicemente per vivere.

Con il suo ‘misticismo’, il giornalismo come vocazione e la sua lunga barba canuta mi ha ricordato un autorevole giornalista: Tiziano Terzani.
Ma scherza? No, non posso accettarlo. Mi lusinga, ma non reggo al paragone. Lui era coltissimo, coniugava la ‘missione’ per il giornalismo con un’eleganza, una professionalità e una cultura fuori dal comune.

(27 gennaio 2011)

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